S. Pietro – Monastero – Santa Teresa. Dislivello m. 710 – tempo di percorrenza ore 2.00.
Santa Teresa – Alpe Manco. Dislivello m. 763 – tempo di percorrenza ore 2.00.
Alpe Manco – Bocchetta di Campo – Alpe Campo. Dislivello + m. 193 / – m. 269 – tempo di percorrenza ore 0.50
Parte I: S. Pietro – Santa Teresa
Si parte da S. Pietro, passando davanti alla chiesa e salendo una breve rampa; qui è bene chiedere indicazioni per il sentiero (ora poco usato) che in pochi minuti porta ai crotti di S. Pietro. Quando si incrocia una stradina asfaltata, seguirla in salita verso sinistra (a destra si va ai crotti: lo faremo un’altra volta!) e, dopo aver superato altri rustici (crotti di Monastero), imboccare la scaletta sulla destra (segnalazione sentieri).
Qui il sentiero, praticabile anche se non curato, incrocia ogni tanto la strada asfaltata; nell’ultima parte in alto è un po’ più difficile ritrovarlo: fare attenzione a sinistra, scendendo un po’ lungo l’asfalto). In pochi minuti ci si affaccia alla bella spianata di Monastero, subito salutati da alcuni rustici (uno con un dipinto votivo, forse in onore della Madonna di Gallivaggio). Altri dipinti si trovano più avanti, anche se il loro stato non è ora dei migliori.
Ci troviamo su un bel ripiano di origine morenica, a ricordo delle glaciazioni che interessarono anche questa vallata. La linea dei terrazzamenti morenici si può notare agevolmente su tutto il tratto che va dalla Torre di Segname fino a Casenda, con andamento degradante da Nord a Sud, e nettamente incisa in più punti dai corsi d’acqua che scendono dalla montagna (qui siamo nella parte terminale, verso Est, delle Alpi Lepontine: dall’altra parte della Valle iniziano le Retiche, annunciate dall’imponenza del Pizzo Prata, localmente noto come “Pizóon”).
Sulla presenza, nel passato, di un monastero non ci sono dubbi, come si deduce dai ruderi che ancora testimoniano gli antichi insediamenti, e soprattutto dal vasto terreno recintato che conserva ancora un vecchio cancello di ingresso. Lo conferma anche l’estrema parcellizzazione dei terreni, un tempo intensamente coltivati, che occupano il pianoro: fenomeno tipico degli insediamenti più antichi. Tuttavia, allo stato attuale, non si è trovata alcuna documentazione, se si esclude una nota di consegna di arredi di un “oratorio” alla chiesa di S. Pietro (1772).
Un po’ staccati verso Sud (a sinistra per chi sale), ci sono i casolari di un secondo nucleo; oggi Monastero non è più abitato, anche se diversi rustici sono stati recuperati come seconde case (fenomeno favorito negli ultimi anni anche dal completamento della strada carrozzabile).
Lasciato il nucleo di Monastero e seguendo il segnavia presso la bianca cappelletta subito ben visibile (un tempo meta di “rogazioni”), poco sopra si imbocca un comodo e largo sentiero (attenzione qui a non sbagliare: tenere a destra, in salita, mentre la pista pianeggiante a sinistra era servita per un cantiere).
In una decina di minuti si raggiunge il sovrastante terrazzamento morenico di Pianezza, con un gran muro a circondare quello che doveva essere un tempo terreno coltivato, ed i ruderi di un’antica costruzione con semplice portale in pietra e finestra trilitica. Poco sopra altri rustici, ormai in decadimento: siamo alla località “Čè dàla Blása”, un tempo utilizzata da alcune famiglie che ne coltivavano i terreni con piccoli orti e campicelli di patate, portandovi le mucche al pascolo e sfalciando i pochi prati disponibili.
Qui il sentiero, con andamento quasi pianeggiante, compie una lunga traversa verso destra (Nord) fino al dosso che sovrasta le forre del torrente Mengasca. A pochi passi, sulla destra, si giunge ad un altro maggengo, il “Mott di Damíin”: qualche casolare ed un vasto prato con una pendenza incredibile, precipite sul torrente.
Ignoriamo questa deviazione e seguiamo il sentiero principale, che compie una decisa svolta a sinistra e sale, attraverso fitti boschi di faggio e con una pendenza abbastanza regolare e costante, fino a raggiungere finalmente i prati di Santa Teresa.
Subito si presentano alla vista i rustici di questo antico maggengo (qui conosciuto come il “Móont: il monte per eccellenza), molti allineati sul bel declivio lungo l’asta del piccolo torrente, la Val màrscia o Val di beĉĉ, altri spostati verso i prati sulla destra. E sulla destra, sola e affacciata verso la valle, si staglia contro il cielo la sagoma della semplice chiesetta, che è un po’ il biglietto da visita di questo luogo da incanto.
La possiamo raggiungere con pochi passi, appoggiare lo zaino su uno dei muretti di recente risistemati da alcuni assidui frequentatori del luogo, e finalmente goderci il bellissimo panorama. Tutta la Valle è visibilissima, da Chiavenna a Nord fino a Novate Mezzola, dove i due specchi d’acqua si presentano alla vista con la loro particolare colorazione: il blu intenso del Pozzo di Riva, il verde del Lago di Mezzola, che chiude la piana della bassa Valle poco più giù.
Di fronte l’imponente massa rocciosa del Pizzo Prata, dietro il quale si intravede la Val Codera, mentre verso Nord chiudono l’orizzonte il Pizzo Stella e le cime circostanti. Anche le Valli Spluga e Bregaglia sono bene individuabili, mentre sulla sinistra si nota il passo della Forcola.
A Sud si staglia la sagoma del monte Berlinghera, con l’ampia sella della Bocchetta di Chiaro sulla destra (percorso n. 7).
Per chi decide di concludere qui la propria escursione, il ritorno può avvenire lungo lo stesso percorso oppure scendendo lungo il percorso n. 5 (Nogaredo – Piazza Caprara).
Parte II: Santa Teresa – Alpe Manco.
Al limite superiore dei prati ha inizio il bel bosco del “Röan” che sovrasta il maggengo: un denso faggeto, che si risale con un comodo sentiero fino al piccolo alpeggio di Sambosina, ormai al limite inferiore della pineta (tempo previsto mezz’ora).
Ora la strada, che si individua sulla destra (Nord-Ovest) per chi sale, si inoltra con andamento pianeggiante (salvo alcune ripide discese su ardite scale intagliate nella roccia: Sĉala Pisc.na e Sĉala Granda) e attraversando densi boschi di abete bianco e larice, verso la Valle della Mengasca. Giunti verso il tratto finale si attraversa l’impressionante gola della Val Salina, si raggiunge quindi un ventaglio di corsi d’acqua tributari del torrente Mengasca e si attraversa sopra la roccia l’ultimo e più importante: il punto di passaggio è detto la Bóla (nome locale delle grosse pozze d’acqua).
Ora si sale costantemente, con andamento a zig zag e sempre all’interno di fitti boschi di abete e larice, con poche radure come quella della Casinöla, minuscolo alpeggio con una sola baita, un tempo luogo di sosta durante il trasferimento di persone ed animali verso gli alpeggi di Manco e Campo. Si spunta infine sul poggio che ospita l’Alpe Manco, dove si trova un buon numero di baite, ormai in completo abbandono, salvo l’ultima in alto a destra, ristrutturata e ora adibita a rifugio.
Parte III: Alpe Manco – Alpe Campo.
Proseguendo e superando alcune roccette, si piega a destra (Nord-Ovest) e si compie una traversa verso la Bocchetta di Campo (Scima), sempre bene in vista, raggiungendola con una mezz’ora di cammino.
Qui è d’obbligo una sosta presso la pozza (localmente chiamata laghetto), da dove è possibile ammirare per un’ultima volta il panorama verso il fondovalle, prima di iniziare la definitiva discesa che, passando per alcuni brevi avvallamenti e ripiani (Zoĉa Granda, Laĝétt, Pianéi), porta in breve alla bella piana dell’Alpe Campo.